Una famiglia perugina di Pompieri

Tra i nostri soci abbiamo il piacere di annoverare Francesco Carattoli appartenente ad una famiglia perugina che occupa un posto preminente nella storia dei pompieri di Perugia. Infatti Il nonno di Francesco, Manlio, come abbiamo ricordato in questo sito nel settore “La Storia” nelle pagine dedicate ai Civici Pompieri perugini, fu uno dei Comandanti più importanti di questo glorioso Corpo ed anche il figlio Giancarlo, padre del nostro socio, ebbe un ruolo pompieristico importante avendo rivestito per alcuni anni, nell’immediato dopoguerra, la carica di Vice Comandante Volontario nell’appena costituito 61° Comando Provinciale di Perugia.

L’amico Francesco, pur non avendo potuto seguire suo malgrado le orme dei suoi predecessori, si è sempre sentito parte della grande famiglia dei pompieri e quindi ha chiesto di entrare nella nostra Associazione e naturalmente noi siamo stati ben felici di accoglierlo.

Parlando con Francesco abbiamo piacevolmente scoperto che egli, per non far cadere nel mare dell’oblio le gesta dei suoi progenitori, ha voluto descrivere a grandi linee la storia di questa famiglia di pompieri nelle pagine di una monografia scritta ad uso e consumo strettamente personale. Fortemente stimolati dalla curiosità non abbiamo resistito all’impulso di chiedergli di donarcene una copia e lui gentilmente ci ha accontentato.

Ma non appena lette le prime pagine dello scritto siamo rimasti piacevolmente sorpresi dalla bella storia che si dipanava sotto i nostri occhi per mezzo delle parole di Francesco proposte con uno stile semplice e simpatico e impreziosite da bellissime e rare fotografie che ci mostrano immagini di un tempo che fu e scorci perduti della nostra città. 

Ovviamente non abbiamo potuto fare a meno di chiedere a Francesco di consentirci di portare la storia a conoscenza dei visitatori del nostro sito per permettere anche a loro di fare un lungo salto indietro nel tempo ed entrare nell’atmosfera di quei tempi gloriosi in cui l’eroismo e la bravura dei nostri colleghi di allora sopperivano in modo egregio alla carenza di mezzi e ad una scarsissima tecnologia,

Francesco ha aderito alla nostra richiesta e allora …….eccoci qui pronti a pubblicare questa bella storia.

Fatte queste premesse, leggiamo cosa ci racconta Francesco Carattoli senza trascurare di pubblicare, prima del testo, la simpatica pagina di copertina della sua pubblicazione nonché la dedica che egli ha voluto premettere.

 

P.S. – Poiché il racconto è piuttosto lungo abbiamo deciso, con il consenso di Francesco, di dividerlo in più parti che pubblicheremo intervallate nel tempo in modo da creare nel lettore – sulla scia delle interminabili telenovelas che la TV ci ammannisce giornalmente – quel piacevole senso di ansia nell’aspettare la puntata successiva.

 

 

Un grazie all’Ing. Gianfranco Eugeni e all’amico Massimo Bertolini per la spinta d’incoraggiamento che mi hanno dato a mettere ordine e provare a raccontare questi ricordi.

Grazie anche a mia sorella Maria Luce Carattoli (il cui II° nome è naturalmente Barbara!) per l’aiuto a rinfrescare la memoria, ad Anna, Andrea, Filippo, Mattia per la pazienza che hanno sempre avuto con le mie “fisse” e….soprattutto grazie a nonno Manlio e papà Giancarlo, principali protagonisti di questa storia.

Il loro ricordo, con tanto orgoglio e una dolce malinconia, rimarrà sempre un esempio di vita per tutti noi

UNA FAMIGLIA PERUGINA DI POMPIERI

 ……. e la storia continua

Mi chiamo Francesco Carattoli, ho l’onore e la gioia di essere stato accolto nella famiglia della Associazione degli Ex Vigili del Fuoco di Perugia, non direttamente come ex vigile del fuoco, sebbene abbia tentato di esserlo, ma per passione personale e per meriti, diciamo così, “dinastici”.

La passione per quel Corpo che mio nonno chiamava “Civici Pompieri”, mio padre ed io “Vigili del Fuoco”, mio figlio Andrea “Shouboshi 消防士”, mio nipote Lorenzo “Bomberos” e poi “Firefighters”, da quattro generazioni è nel cuore e nella tradizione nella mia famiglia. Sono inoltre certo che, soprattutto i soci “meno giovani”, avranno probabilmente conosciuto mio padre Giancarlo.

Ho voluto raccogliere in questi appunti i miei ricordi “pompieristici”, unitamente alle foto e ai documenti di famiglia in mio possesso, anche allo scopo di lasciarne una traccia fruibile a coloro che prima o poi prenderanno il mio posto di anziano della famiglia. Ma anche per condividerli con amici animati dalla medesima passione. Questi ricordi sono in ordine sparso, non sempre cronologico ma spesso in base alla casualità con cui mi tornavano in mente.

 

 

1° Parte

MANLIO CARATTOLI

 

Cominciamo…..

Tanti anni fa, nel lontano 20 gennaio 1885, nacque a Borgo San Donino (ora Fidenza) Manlio Carattoli, il futuro Comandante dei Civici Pompieri di Perugia.

 

 

Suo padre, il prof. Giovanni, atletico insegnante di francese, fu il primo a introdurre scientificamente nella nostra città e fra i primi in Italia, quella disciplina che lui così definiva: “metodo scientifico per l’insegnamento dell’educazione fisica come fonte di equilibrio con le energie dello spirito e come necessario addestramento alle leali competizioni sportive”.

Laureato alla scuola superiore di ginnastica di Torino nel 1878, era stato chiamato dal Sindaco della cittadina emiliana per insegnare, con criteri scientifici, nelle locali scuole questa nuova disciplina che stava trovando sempre più spazio nel percorso formativo della giovanissima Italia unita. A Borgo San Donino, aveva sposato Ada Chiarpa, figlia del Notaio cittadino e qui erano nati i primi due dei suoi tre figli.

Giovanni fu un personaggio importante nella Perugia della Belle Époque: tra i fondatori con Francesco Guardabassi nel 1890 della Società Sportiva Braccio Fortebraccio, poi del Veloce Club perugino, vinse con le sue squadre di giovani allievi numerosi concorsi ginnici nazionali e trasmise ai suoi tre figli Manlio, Enzo e Bruno la passione per le discipline sportive e l’organizzazione delle relative manifestazioni.

Si narra che, sul finir del secolo, i tre giovani rampolli Carattoli fossero il terrore dei colleghi che studiavano nelle scuole di Piazza San Francesco e dei passanti di via dei Priori. Partendo dall’abitazione paterna a Porta Sole, calzati i loro pattini a rotelle (novità diabolica per l’epoca), percorrevano a folle velocità le discese della nostra città, facendosi strada con l’ausilio di una trombetta fino al cortile delle scuole! L’ex convento di S. Francesco al Prato, dove i tre ragazzi studiavano, era anche la sede della prima palestra comunale diretta dal prof. Carattoli.

Sempre sulla Piazza S. Francesco, prospiciente l’ingresso dell’ex convento, Giovanni Carattoli, quale giudice ed esaminatore incaricato dal Comune, rilasciava dal 1893 ai giovani perugini la cosiddetta “abilitazione alla guida della bicicletta. Gli aspiranti ciclisti dovevano sottoporsi ad una “prova di padronanza”, compiendo una serie di evoluzioni sul polveroso piazzale con al centro il severo esaminatore che impartiva i comandi da eseguire.

Giovanni Carattoli morì nel 1914 stroncato da un’infezione a seguito di una foruncolosi (allora non esistevano gli antibiotici): aveva da poche ore terminato con i suoi allievi e già febbricitante, il giro del Lago Trasimeno in bicicletta.

Manlio si diplomò geometra nel 1904 e poco dopo vinse il concorso per entrare nell’Ufficio Tecnico Comunale di Perugia, cominciando così una lunga carriera al servizio della nostra Città.

Quando nel 1906 il Cav. Zeno Buranelli lasciò per raggiunti limiti di età il comando dei Civici Pompieri, Manlio vinse il concorso indetto dal Comune per sostituirlo e divenne il nuovo Comandante restando in carica fino al 1931.

Spesso le attività di Tecnico comunale e quelle di Comandante dei Pompieri si intrecciavano, quasi anticipando l’attuale concetto di protezione civile.

Mio nonno era senza dubbio un gran bell’uomo, alto oltre un metro e ottanta, asciutto ma atletico, con due grandi occhi azzurri.

La mia anziana maestra delle elementari, la Sig.ra Corinna Forza Polisca, (mia fu l’ultima classe cui insegnò perché andò in pensione nel 1959) mi raccontava che da studentessa, quando frequentava “l’Istituto Magistrale” nell’ex convento di Santo Spirito, incontrava spesso mio nonno con la moglie Lucrezia Mazzi davanti alla loro abitazione in Via del Circo e mi diceva che fossero una delle più belle coppie di Perugia.

L’attività del Comandante Carattoli fu sempre rivolta verso il miglioramento e l’efficienza del lavoro dei suoi pompieri, cercando di modernizzarne sia l’organizzazione che gli strumenti tecnici, sempre scontrandosi però con le scarse disponibilità del bilancio comunale.

Finalmente nel 1913, dopo innumerevoli richieste ed altrettanti rinvii sempre per problemi di bilancio dell’amministrazione comunale, i Pompieri di Perugia ebbero in dotazione un autocarro attrezzato. Si trattava di un Fiat 15/ter che aveva per base il modello utilizzato dall’esercito italiano nella Campagna di Libia. Acquistato a rate presso l’Autogarage di Perugia fu adattato alle richieste dei nostri Pompieri con ruote posteriori gemellate e pneumatiche.

Dalla foto si può apprezzare l’imponenza del nuovo mezzo, quasi in posa con i suoi ottoni luccicanti insieme con l’orgoglioso ed impettito equipaggio davanti a quello che era il primo arsenale (leggi “caserma”) dei Pompieri a Palazzo dei Priori, sotto la Loggia della Vaccara.

Si vede mio nonno seduto accanto all’autista, con a fianco il vigile munito di tromba che faceva le veci della sirena! Da notare anche la precarietà della posizione di viaggio della squadra. Sotto le Logge si intravede il cosiddetto treno da città, cioè il carretto a trazione “umana” attrezzato per gli interventi negli stretti vicoli della città vecchia.

Sul telaio dell’autocarro fu montata la pompa precedentemente installata su un carro a trazione animale, pompa ad azionamento manuale! Il carro, privato della pompa, fu poi rivenduto ai Pompieri Comunali di Foligno, un Corpo che manifestò sempre gratitudine verso il Comandante Carattoli per l’assistenza e i consigli forniti fin dall’inizio della sua costituzione.

Col passare del tempo, sempre grazie alla pazienza e alla costanza di mio nonno nel chiederne il finanziamento, l’autocarro Fiat fu oggetto di continue migliorie, quali nel 1917 la sostituzione dei fari ad acetilene (richiedevano diversi minuti per cominciare a funzionare!) con i più moderni ed efficienti fari elettrici, all’acquisto nel 1920 di una motopompa Tamini.

Circa un mese dopo l’acquisto dell’autocarro l’Amministrazione dette incarico al Comandante di formare una squadra di schauffeurs composta da sei pompieri, compreso naturalmente lo stesso Comandante.

Occorreva una certa abilità nel condurre il mezzo per non far precipitare in strada, nelle curve strette affrontate a grande velocità (?!), qualche vigile seduto sulle panchine longitudinali frontestrada (cosa peraltro accaduta realmente!). Del mezzo in dotazione ai civici pompieri ne andava orgogliosa l’intera città e per le ricorrenze non mancava la rituale foto di gruppo.

 

 

Prima dell’arrivo del mezzo motorizzato, i Pompieri perugini avevano a disposizione un carro pompa chiamato “treno da campagna”. Da quello che mi raccontava mio padre, per un certo periodo fu trainato da cavalli ciechi (ovviamente ciechi dalla nascita, non accecati!), i quali avevano il duplice vantaggio di costare molto meno di un cavallo normale e di non spaventarsi davanti alle fiamme perché semplicemente non le vedevano!

Purtroppo, malgrado la bravura dei conducenti ed il feeling degli stessi con i cavalli, qualche volta si verificavano anche degli incidenti. Si racconta della chiamata per un intervento urgente e del carro che, partito dalla rimessa in Piazza IV Novembre, giunto al tornante all’altezza della Torre dei Donati nell’attuale Viale Indipendenza, non riuscì ad impostare la curva e andò ad urtare violentemente contro il parapetto, quasi correndo il rischio di precipitare dabbasso. Purtroppo un cavallo rimase ferito e dovette essere abbattuto.

Mio padre mi raccontava che, dopo il 15/ter, i Pompieri di Perugia con il passare del tempo ebbero naturalmente in dotazione altri mezzi tra i quali una motocicletta Frera con trasmissione a cinghia.

Quando nel 1956 mio nonno morì, durante le pietose operazioni di vestitura per l’ultimo viaggio verso la tomba di famiglia, papà notò che nonno recava ancora sulle spalle una cicatrice segno indelebile dalla frustata ricevuta in seguito della rottura della cinghia di trasmissione di quella moto!

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2° Parte

ALCUNI IMPORTANTI INTERVENTI DEI CIVICI POMPIERI PERUGINI

 

Il 1915 fu un anno particolarmente impegnativo per i nostri Pompieri a causa di tanti funesti ma al contempo gloriosi avvenimenti. L’Italia entrò in guerra, ma i Pompieri Perugini non furono mandati al fronte perché la loro opera era indispensabile per la sicurezza delle città.

Infatti, quando il 13 gennaio 1915 nelle zone di Rieti, dell’Aquila e soprattutto nella Marsica, si verificò un disastroso terremoto dell’XI grado, Manlio ed altri 11 Pompieri perugini furono chiamati in aiuto dei colleghi locali per soccorrere la sventurata popolazione.

Essi operarono principalmente nella zona di Avezzano completamente distrutta dal sisma con 11.000 vittime su 13.000 abitanti. A seguito di quei tragici fatti, l’8 marzo 1917 un Decreto Luogotenenziale concesse loro alcune medaglie per l’opera svolta.

Oltre alla medaglia d’argento al Corpo di Perugia, vennero concesse 2 medaglie d’argento al Comandante Manlio Carattoli ed al Pompiere Nicolini e ben 11 medaglie di bronzo.

Anche nel 1917 l’Italia centrale, questa volta nell’Eugubino e in Valtiberina, fu devastata da un violentissimo terremoto le cui scosse durarono diversi giorni.

I Pompieri perugini corsero in soccorso delle popolazioni colpite, come dimostrano le foto allegate scattate a Lippiano e Monterchi. In proposito, papà mi raccontava di come nonno Manlio salvò la vita ad un suo sottufficiale: in seguito all’ennesima scossa che distaccò la facciata di un vecchio edificio con una grande loggia al primo piano, nonno urlò al suo compagno di non muoversi in quanto si trovava proprio sulla direttrice dello spazio vuoto della loggia, così il muro cadde tutt’attorno al pompiere che quindi riuscì a “centrare” la loggia evitando di rimanere schiacciato dal muro circostante. Anche in questa occasione i Pompieri di Perugia riscossero l’ammirazione generale, tant’è che il Comandante Carattoli poteva chiudere la sua relazione con queste parole “tenendo alto il decoro ed il buon nome del Corpo e della Città”.

 

Lunedi 5 luglio 1915 Perugia dovette fare i conti con un pauroso incendio nel centro della città. Ad andare in fiamme fu uno dei tre cinema cittadini, la Sala Eden, un padiglione stile Belle Époque allestito fra i Tre Archi e il Palazzo Penna, all’incirca dove ora c’è il Bar Ristorante Iris. Data la sua struttura completamente in legno in appena mezz’ora fu ridotto in cenere.

Il cronista de “L’Unione” (quotidiano perugino dell’epoca) ha così raccontato l’accaduto e ho piacere di riportarlo integralmente:

“Alle 17.15 era da poco cominciata la prima rappresentazione, che si svolgeva innanzi ad un pubblico fortunatamente non molto numeroso. All’improvviso, per cause non ben precisate, ma crediamo per un corto circuito nella cabina dell’operatore, la pellicola cinematografica prese fuoco, divampando con una celerità inaudita. Dato subito l’allarme, il pubblico terrorizzato si riversò all’aperto e, ripetiamo, si deve all’esiguo numero degli spettatori se oggi non dobbiamo lamentare una ben tragica sciagura che sarebbe certamente avvenuta se il sinistro si fosse verificato in una giornata festiva quando cioè il frequentato ritrovo è letteralmente gremito di pubblico.

Il personale dell’Eden, aiutato da alcuni volonterosi, per quanto avesse compreso che l’incendio non era domabile, ha tentato di porre in salvo alcune suppellettili del locale, come ad esempio il pianoforte, ma a causa della violenza delle fiamme, ha dovuto desistere da ogni tentativo di salvataggio. Il vasto padiglione ben presto si è trasformato in un immenso e spaventoso braciere di fuoco, dal quale si elevavano altissime colonne di fumo e vorticose fiamme iridescenti che spinte dal vento hanno investito l’attiguo Palazzo Penna minacciandolo seriamente.

Fortunatamente sul luogo dell’incendio accorsero, con una sollecitudine degna di encomio, i nostri bravi soldati, i quali si divisero l’arduo compito, una parte tenendo indietro la folla di popolo col tirare i cordoni, e l‘altra slanciandosi con coraggio verso la Casa Penna sulla facciata della quale si sono aggrappati riuscendo a raggiungere il primo piano, le cui persiane erano già in preda alle fiamme. I valenti soldati, molti dei quali del distretto di Roma, hanno compiuto miracoli di celerità e di coraggio riuscendo ad abbattere le persiane e a penetrare nell’abitazione del Sig. Anselmo Fedeli, e gettare in men che si dica i mobili dalle finestre, mentre altri soldati con egual lena hanno posto in salvo in pochi minuti molto legname dei depositi dei signori Rondolini e Truffarelli che, come ognun sa, hanno i propri laboratori vicinissimi al Cinema Eden.

Accorsero anche i nostri pompieri che fecero del loro meglio; ma la fulminea rapidità delle fiamme limitò l’opera loro all‘isolamento dell’incendio che minacciava la Casa Penna e i baracconi vicini.

Lo slancio ammirevole dei soldati fu lodatissimo da tutti i presenti. Il Cinematografo è andato completamente distrutto in circa 30 minuti e lo spettacolo dell’incendio è stato di una tragicità impressionante. Per il calore inaudito prodotto dalle fiamme le grondaie delle case vicine si sono fuse cadendo al suolo a pezzi. A poca distanza dall’Eden vi sono alcuni baracconi con tiro a segno, fotografia ambulante, ecc., che però non sono stati danneggiati dall’incendio, spirando il vento in senso contrario.

Sul posto si sono recati parecchi agenti delle Società Assicuratrici per constatare i danni subiti dai fabbricati assicurati ad ognuno di essi. Il Cinema Eden era assicurato per L. 16,000 con la ‘Metropol’, però per una clausola del contratto la liquidazione del sinistro avverrà per i soli 4 quinti della somma assicurata”.

Le cronache riportano anche di diverbi piuttosto animati che ci furono tra i militari, le cui caserme in Corso Cavour distavano solo due/trecento metri dal luogo dell’incendio, e i Civici Pompieri Municipali che avevano tempi piuttosto lunghi di intervento dal momento della richiesta, alla chiamata dei singoli, tutto fatto a piedi dai messi comunali. I soldati schernivano i pompieri accusandoli di essere arrivati quando avevano già spento tutto e qualcuno arrivò anche alle mani.

L’ 8 luglio 1915, in una lettera inviata all’Amministrazione Comunale dal Comandante Carattoli, questi giustifica il ritardo dell’intervento per l’incendio presso il Cinema Eden con la scarsa efficienza del sistema di chiamata a “voce”, cioè chiamando uno ad uno i singoli pompieri presso la propria abitazione, e sollecita l’istallazione del telefono almeno presso la propria abitazione. Richiesta inutilmente ripetuta varie volte a partire dal 1908, anno in cui il servizio telefonico urbano era stato municipalizzato. La richiesta anche questa volta fu respinta per mancanza di fondi.

Per vederla accolta dovettero trascorrere altri 10 anni con richieste regolarmente respinte fino al 10 maggio 1925 quando, finalmente, la Giunta deliberò l’allacciamento alla linea urbana del telefono nell’abitazione del Comandante. Da questo momento lo squillare del telefono diventò l’incubo di Anita, la figlia primogenita di nonno Manlio. Zia Anita, non essendo sposata, rimase ad assistere amorevolmente il padre fino alla fine. Morto il nonno fece subito distaccare “l’odiato” telefono, disturbatore della tranquillità familiare.

Un altro grave episodio dalla risonanza nazionale che mise alla prova i nostri pompieri fu nel 1921 l’incendio della “Valigeria italiana già Ezio Vajani” poi diventata “SAVIP Società Anonima Valigeria Perugia”, uno degli opifici più importanti della città con oltre 85 operai. Dal 1912 sorgeva nell’ex convento di Via Tornetta in Porta Santa Susanna, negli ultimi tempi sede dell’Università dei Sapori.

Il disastro ebbe un grande rilievo, così come l’operato dei Pompieri, tant’è vero che a nonno Manlio giunsero anche le congratulazioni di numerosi colleghi, fra i quali i Pompieri di Foligno.

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3° Parte

MANLIO CARATTOLI TECNICO COMUNALE E COMANDANTE DEI POMPIERI

 

Numerosi sono gli episodi tramandati da memorie e documenti familiari, oltre a quelli riportati in diversi libri di storia e di cronaca sulla Perugia dell’epoca, che raccontano l’attività di mio nonno nell’esercizio delle due sue professioni, quello di Geometra Capo in Comune e quello di Comandante dei Civici Pompieri. Proverò a ricostruirne qualcuno fra i più rappresentativi.

  • Il 13 gennaio 1920 il geom. Manlio Carattoli avvertì l’Ingegnere Capo del Comune che “il cavalcavia di Porta Carmine presentava lesioni ed al passaggio di un camion aveva fatto luogo ad un cedimento sensibilissimo”. Nella sua veste di Comandante dei Civici Pompieri, responsabile della pubblica incolumità, chiuse immediatamente la strada ed in quella di Geometra Capo progettò e fece eseguire i lavori di consolidamento dell’arco che permettono la circolazione veicolare anche ai giorni nostri.
  • Il 26 novembre 1926: il Comandante presenta alla Giunta Comunale un progetto dettagliato di ristrutturazione del Corpo nel quale, tra l’altro, si evidenzia la necessità di istituire un servizio permanente di guardia presso l’Arsenale. Ciò avrebbe ovviamente comportato la drastica riduzione dei tempi di intervento che erano, come abbiamo già visto, la causa più frequente di lamentele. La Giunta prende atto positivamente del rapporto ma, visto che esso avrebbe comportato un aumento annuale di spesa di L. 13.000, rinviò la decisione. Solo nel dicembre 1929 la Giunta approvò un servizio permanente di guardia – solo notturno! – con 4 pompieri pronti alla partenza.

Mio nonno abitava in Via del Circo n.9, quasi ai piedi della punta della Rocca Paolina. Purtroppo il “muraglione” era spesso il luogo scelto da disperati che, saliti sul parapetto, si gettavano poi nel vuoto per farla finita con una vita infelice. Mio nonno, data la vicinanza, era sempre uno dei primi ad intervenire sul luogo della disgrazia ed a casa sua era sempre pronto un lenzuolo destinato a coprire il corpo dello sventurato suicida. Le memorie familiari narrano del caso di una donna di un borgo vicino che, in preda ad un raptus di disperazione, si gettò dalla Rocca, ma le pesanti gonne del “vestito buono”, sorrette dalla gabbia di crinolina, le fecero quasi da paracadute e la poveretta “atterrò” in Viale Carlo Alberto, come si chiamava allora Viale Indipendenza, fratturandosi “solo” le gambe e il bacino, ma restando viva.

Il Geometra Capo del comune, nonché Comandante dei Pompieri, rappresentò la situazione all’Ingegnere Capo ed insieme convennero di installare lungo il perimetro esterno della Rocca la rete di protezione anticaduta tutt’ora in funzione. Questa soluzione salvò numerose vite perché è pur vero che chi voleva suicidarsi poteva scendere nella rete e poi scavalcarla per gettarsi comunque giù, ma in molti casi, una volta sulla rete, con il vuoto sotto i piedi, era preso dal panico e dalle vertigini, il che lo portava a ripensarci e a chiedere aiuto per risalire. E i Pompieri correvano in soccorso con scale e corde.

Mio nonno aveva anche contribuito alla progettazione e alla realizzazione di numerose altre opere pubbliche cittadine.

Papà mi diceva che nonno Manlio andava particolarmente orgoglioso della strada delle Lambrelle o Mandrelle, quella che, dalla Cappellina della Madonna della Neve, unisce Via Eugubina con Ponte Rio.

È una strada in salita piena di curve e tornanti, ma dalla pendenza che resta sempre costante per tutto il percorso perché, come diceva mio nonno, ai somari che trainano i carretti con i contadini e i loro prodotti da vendere in città, delle curve non importava nulla. L’importante era che, una volta impostata l’andatura, gli animali non dovessero cambiare passo con il mutare della pendenza.

Con gli strumenti tecnici dell’epoca, indubbiamente un bel risultato!

Nonno fu il direttore dei lavori nella costruzione del Mercato Coperto nel 1932, curò l’ampliamento e la costruzione di diverse scuole elementari nel territorio comunale, la più importante quella del XX Giugno (1908-1911 progetto ing. Inglesi).

Progettò anche le strade che allacciavano alla viabilità principale nelle frazioni di Perugia le stazioni della neonata Ferrovia Centrale Umbra, compresa quella che adesso è Via Fiume e che unisce la Stazione di S.Anna a piazza Garibaldi.

A proposito di Garibaldi, fu un avvenimento l’epico trasferimento della statua dell’eroe dei due mondi da Piazza del Sopramuro (già Garibaldi, ora Matteotti) dove era stata edificata originariamente, all’attuale ubicazione all’attuale ubicazione in Largo Cacciatori delle Alpi.

Mio nonno, avvalendosi senz’altro anche del contributo dei civici pompieri, ne organizzò nel 1931 il “trasloco” con l’ausilio, se ricordo bene la storia, di ben cinque o sei coppie di buoi.

Gli animali furono all’inizio messi a trainare la statua da piazza del “Sopramuro” fino all’altezza della Prefettura facendola scorrere sopra dei grossi rulli (tronchi) di legno che venivano posizionati sotto il monumento. Quando il corteo giunse all’inizio di Viale Carlo Alberto, dove iniziava la discesa, alcune coppie di buoi furono riposizionate dietro alla statua stessa, al fine di frenarne e controllarne la discesa.

Precedentemente, nel 1926, Manlio Carattoli aveva curato il trasferimento della caserma/rimessa (arsenale) dei Civici Pompieri dagli angusti locali posti sotto le Logge della Vaccara del Palazzo dei Priori, in quelli ben più spaziosi di via del Melo, dove i Pompieri, divenuti nel 1935 Vigili del Fuoco, rimasero fino agli anni del primissimo dopoguerra, quando mio padre Giancarlo fu tra i coordinatori del trasferimento nella nuova caserma di corso Cavour.

Dopo il famigerato incendio del cinema Eden, mio nonno cercava disperatamente di ottimizzare e soprattutto ridurre i tempi d’intervento dei Pompieri.

Allo scopo progettò e fece costruire uno speciale raccordo per manichette antincendio di sua invenzione che consentiva di aggiuntare i tubi senza dover tener conto del verso dell’innesto, maschio o femmina che fosse. Ciò consentiva un notevole risparmio di tempo nella stesura dei tubi e metteva al riparo da eventuali errori. Il raccordo fu adottato dai pompieri di numerose città. Mio nonno, però, non volle mai brevettarlo perché riteneva che ciò che contribuiva a salvare vite umane non dovesse essere fonte di speculazione economica.

 

Nonno Manlio, come gran parte dei giovani di inizio secolo, amava tutto ciò che riguardava la velocità: dopo tutto siamo nell’epoca del Futurismo! Dall’ostinazione nel volere un veloce mezzo a motore anche per i suoi pompieri (come abbiamo visto ci riuscirà solo nel 1913), alla passione per la bicicletta ereditata da suo padre e condivisa soprattutto con il fratello Bruno.

Questi, futuro Prefetto del Regno, eclettico personaggio attratto sempre dalle idee innovative e in anticipo sui tempi, nel 1911, ai tempi della guerra italo-turca per il possesso della Libia e dei primi tentativi di bombardamento aereo, discusse la sua tesi di laurea in Giurisprudenza sul tema del “diritto aereo internazionale”, prima in Italia!

Bruno vinse diverse gare ciclistiche nell’Italia centrale e nel 1908 fu campione umbro di velocità. Fu l’inventore del primo cambio per biciclette che permetteva di cambiare velocità senza scendere di sella, il famoso “Forcellino”.

I due fratelli Carattoli nel 1912 presentarono al Comune di Perugia un progetto per la costruzione sullo spiazzo prospicente il complesso monastico di Santa Giuliana, dello “Stadio Velodromo” di Perugia e del suo circondario.

 

Il progetto prevedeva una pista di cemento di 333 metri per ciclismo, motociclismo, pattinaggio; una pista in carbone di 300 metri per podismo ed ippica; un prato per calcio, atletica ed ippica; un terreno in terra battuta per tennis etc.; tribune per 6000 persone, spogliatoi con docce, sale massaggio etc.

Pur essendo stato approvato con entusiasmo dalla popolazione e dall’Amministrazione Comunale, il progetto non ebbe seguito, sempre per la cronica mancanza di fondi nelle casse comunali e la città dovette aspettare altri 26 anni prima di vedere il Santa Giuliana nell’esatto luogo indicato dai fratelli Carattoli.

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4° Parte

MANLIO CARATTOLI: GLI ULTIMI ANNI DI COMANDO SOTTO IL FAMIGERATO VENTENNIO

 

Manlio appena possibile prese l’abilitazione alla guida di veicoli a motore così da poter guidare il tanto sospirato autocarro dei pompieri (allorché le finanze del Comune avessero permesso di acquistarlo!)

Quando nel 1924 Giovanni Buitoni, che oltre patron della Perugina era anche Podestà di Perugia, si inventò la corsa automobilistica “COPPA DELLA PERUGINA”, il Corpo dei Civici Pompieri fu fortemente impegnato nella sicurezza e nella organizzazione della manifestazione.

Manlio Carattoli fece attrezzare l’autopompa comunale per innaffiare, qualche ora prima della partenza, con acqua mista a nafta pesante fornita da S.A. Petroli e Nafta di Ponte San Giovanni le polverose strade del circuito lungo ben 16,4 km. Si cercava così di evitare o per lo meno attenuare la nube di polvere sollevata dal passaggio delle auto che avrebbe disturbato i corridori e il numerosissimo pubblico.

Difatti il Grand Prix perugino dal 1924 al 1927, grazie all’impegno e all’ingegno di Giovanni Buitoni, faceva di Perugia la capitale dell’automobilismo agonistico italiano, seconda solo alla Targa Fiorio e più famosa del Gran Premio di Monza. Si trattava dell’avvenimento mondano e sportivo più importante dell’anno che comportava un notevole impegno per tutte le Istituzioni della città, naturalmente con i Pompieri in prima linea.

 

Purtroppo quella del 1927 fu l’ultima edizione della popolare manifestazione in quanto il contributo governativo erogato tramite il Reale Automobile Club, fu dirottato sul nuovo “GRAN PREMIO DI ROMA”, fortemente sponsorizzato dal Governo Fascista.

Giovanni Buitoni e la Perugina, non potendo più farsi carico dell’intero disavanzo di bilancio previsto per l’edizione 1928, decretarono la fine della manifestazione.

Questo fatto contribuì al deterioramento dei rapporti tra Mussolini e Buitoni e la città, divergenze che raggiunsero il culmine con l’episodio accaduto in occasione dell’inaugurazione del nuovo acquedotto perugino.

Quando il 24 agosto 1932 il Duce, dal pulpito della Vaccara, premette il bottone che doveva far zampillare dalla Fontana Maggiore l’acqua proveniente dalle sorgenti di Scirca, in realtà accese una lampadina quale segnale al fontaniere (pompiere volontario) che, posizionato nel locale sottostante Piazza IV Novembre, azionò la pompa per far zampillare comunque l’acqua dalla vasca superiore di bronzo, anche se l’acquedotto testé inaugurato ancora non funzionava!

Il Duce mangiò la foglia, non tornò mai più a Perugia, Buitoni non fu riconfermato Podestà ed andò in America… ma questa è un’altra storia.

Della grande nevicata del 1929, rimasta per generazioni nei ricordi dei perugini, mio padre, allora quattordicenne, raccontava di quando era costretto a uscire e rientrare nella casa paterna di Via del Circo dalla finestra dell’ingresso, salendo sopra un cumulo di tre metri di neve accatastata dal vento e che aveva sepolto il portone d’ingresso dell’abitazione.

Nella sua veste di Comandante, mio nonno aveva constatato che spessissimo i Pompieri venivano chiamati in soccorso da cittadini ai quali il peso della neve accumulata aveva fatto crollare il fragile tetto di casa. Manlio studiò un sistema per limitare questa situazione di pericolo.

Con l’ingegno che gli era congeniale fece costruire dal falegname del comune (probabilmente pompiere volontario anche lui) degli attrezzi di legno costituiti da una lunga pertica che aveva al vertice saldamente ancorata una tavola sempre di legno. Questo permetteva ai pompieri, dalle terrazze o dagli abbaini delle soffitte o acrobaticamente con l’uso di scale, di usarla a mo’ di spazzaneve per liberare dal peso della neve accumulata i tetti pericolanti o a rischio crollo facendola, quasi con effetto slavina, cadere a terra.

Poiché il freddo intenso e i tentativi della popolazione di porvi rimedio con stufe, bracieri etc. aveva anche fatto aumentare gli incendi nelle abitazioni, il Comandante Carattoli richiese nuovamente (lo aveva già fatto nel 1913 sempre con esito negativo) l’apposizione di mattonelle di marmo sulle pareti dei palazzi, a circa due metri di altezza, per segnalare l’ubicazione delle bocchette antincendio che rimanevano nascoste sotto il manto nevoso.

La richiesta, pur essendo presa in considerazione dall’Amministrazione Comunale, fu respinta ancora una volta per mancanza di fondi.

Purtroppo la possibilità di trovare facilmente le bocchette antincendio ritornò attuale durante la seconda guerra mondiale.

Ricordo che da ragazzo chiesi a mio padre il significato di quei cerchi neri, ormai un po’ scoloriti, con al centro una grossa “I” verniciati sugli intonaci dei palazzi e qualche volta accompagnati anche da una targhetta metallica. Papà mi rispose che la “I” significava “idrante” e serviva per trovare velocemente l’acqua per spengere gli incendi provocati dai bombardamenti, mentre la targhetta indicava la distanza dal muro e la profondità cui si trovava la presa d’acqua.

 

Il 24 maggio 1930 il governo confiscò i locali in via Enrico dal Pozzo 47 di proprietà del “Circolo del Gotto”, un’associazione di operai ed artigiani del quartiere popolare di Porta Pesa, fondata nel 1884, sciolta forzatamente nel 1925 e politicamente invisa al regime fascista.

L’edificio fu consegnato all’Opera Nazionale Dopolavoro e per un periodo ne usufruì il Dopolavoro dei Pompieri. Il 24 maggio 1945 i locali furono riconsegnati ai legittimi proprietari della Società del Gotto e tutt’ora ne costituiscono la sede.

 

In continuità con la vena artistica degli illustri antenati architetti, pittori e scultori, anche mio nonno aveva una particolare attitudine al disegno, che, unita al suo innato senso dell’umorismo, ci ha lasciato divertenti ricordi.

Egli amava riprodurre, e talvolta le disegnava lui stesso, le caricature dei più noti personaggi della città che spesso apparivano sui giornali umoristici dell’epoca.

All’inizio degli anni ’20 arrivarono anche a Perugia i primi estintori a percussione, i famosi MINIMAX. Erano in metallo, lunghi una novantina di centimetri, con una forma a cono e, sbattuti violentemente a terra dalla parte del percussore, la rottura di un’apposita fialetta contenente acido solforico provocava una reazione chimica che produceva anidride carbonica la quale espelleva con forza il prodotto antincendio. Lo si prendeva per la maniglia e si dirigeva il getto alla base delle fiamme.

 

Mio nonno disegnò la sua caricatura nelle vesti di Comandante dei Pompieri che sonnecchiava per l’inattività, con tanto di ragnatele, dovuta appunto all’adozione del Minimax in grado di spengere gli incendi sul nascere.

Un altro episodio che denota la genialità ma anche l’umorismo del tecnico comunale nonché Comandante del Corpo preposto all’incolumità dei cittadini è quella della catena del monumento a Vittorio Emanuele II° eretto al centro di quella che oggi è Piazza Italia.

A protezione della statua c’erano infatti dei pilastrini in pietra che sostenevano una massiccia ma normalissima catena di ferro. Questa era fonte di grande divertimento per i ragazzini che a frotte vi si sedevano sopra per fare l’altalena, ma che così facendo ne provocavano la frequente rottura.

Il geometra Carattoli, stanco delle continue riparazioni delle quali il suo ufficio si doveva far carico (ecco il tecnico comunale) e cosciente del pericolo che correvano i piccoli vandali (ecco il pompiere), progettò e fece costruire una speciale catena munita di artistiche maglie in ferro battuto che per la loro forma rendevano impossibile ai ragazzini sedervi sopra!

Oggi l’unico tratto superstite di quella catena si può vedere all’ingresso del cimitero monumentale della nostra città.

 

Spesso quando ritornava da qualche intervento, Manlio si accorgeva che la divisa aveva perso uno o più bottoni di metallo dorato. Per non sentire più brontolare mia nonna che, mentre li riattaccava gli raccomandava di prestare maggiore attenzione, nonno Manlio provò a cucirli con del sottile filo di ferro. Risultato: i bottoni rimanevano al loro posto, ma la giacca si strappava!

Quando il primo aprile 1931, dopo 25 anni di servizio, il Comandante Manlio Carattoli lasciò l’incarico, furono numerose le testimonianze di stima e di affetto. Importante riconoscimento alla sua pluridecennale attività in soccorso dei cittadini fu il 5 maggio 1936 la consegna della nomina reale a Cavaliere dell’ordine della Corona d’Italia.

Fra le altre cose, conservo la pergamena con le firme di saluto dei “suoi” pompieri, la targhetta smaltata per la porta di casa con la dizione “Comandante Onorario dei Vigili del Fuoco”, gli inviti, i ritagli di giornale e i menù del pranzo per la ricorrenza della festa di S. Antonio, protettore dei Pompieri.

 

Conservo anche la spada della grand’uniforme di Comandante dei Civici Pompieri del Comune di Perugia, mentre l’elmo argentato e le spalline della stessa uniforme furono donate da mio padre, dopo la morte di nonno Manlio, al Comando dei Vigili del Fuoco di Perugia quale testimonianza d’amore e di dedizione di una vita.

Trova spazio nei miei ricordi di bambino di 9 anni anche un episodio piuttosto toccante.

Al funerale di mio nonno, rigorosamente a piedi da casa al cimitero, mio padre, profondamente commosso, mi spiegò chi fosse il vecchietto che era voluto salire accanto all’autista dell’auto funebre.

Si trattava di un ex pompiere, ex vetturino comunale che guidava anche il carro funebre del Comune, la carrozza di rappresentanza, e, all’occorrenza, perfino il carro pompa dei civici pompieri, quello trainato anche da cavalli ciechi.

Era affezionatissimo a mio nonno e andava orgoglioso di aver guidato la carrozza con gli sposi il giorno del suo matrimonio con nonna Lucrezia. Al momento dell’avvio del corteo funebre, l’anziano vetturino aveva chiesto espressamente a mio padre di voler essere lui ad accompagnare il Comandante Carattoli nel suo ultimo viaggio, così come lo aveva accompagnato in tutti gli eventi importanti della sua vita, dagli incendi alle cerimonie ufficiali, al matrimonio.

INDIMENTICABILE!

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5° Parte

GIANCARLO CARATTOLI

 

Parliamo ora dell’altro CARATTOLI Comandante dei Pompieri di Perugia, mio padre Giancarlo.

Nato il 4 luglio 1915, primo maschio di tre fratelli, dopo aver trascorso un’infanzia serena, nel 1938 si diplomò geometra presso il Regio Istituto di S. Francesco al Prato.

È questa di S. Francesco una struttura importante per le vicende della mia famiglia: vi si era diplomato geometra nonno Manlio, vi aveva insegnato e lì aveva istituito la palestra comunale il bisnonno Giovanni Carattoli, già incontrato prima come primo insegnante di educazione fisica della città e tra i fondatori nel 1890 della “Società Ginnastica Braccio Fortebraccio” e del Veloce Club Perugino.

Inoltre la struttura di San Francesco al Prato è anche sede dell’Accademia di Belle Arti che raccoglie molte opere dei Carattoli “artisti” fin dal 1700, a cominciare da Pietro architetto e pittore, Valentino e Giuseppe pittori, Raffaello scultore, Luigi Direttore dell’Accademia. Continuando la tradizione, anche Mattia, il mio terzo figlio, prima di laurearsi in “Progettazione della Moda” presso la facoltà di Architettura di Firenze, ha fatto il liceo artistico fra quelle mura!

Giancarlo Carattoli appartiene a quella generazione che, come suo fratello Raffaello internato in Germania, ha vissuto sulla propria pelle la tragedia del secondo conflitto mondiale.

Subito dopo essersi diplomato geometra, papà fu chiamato a prestare il servizio di leva e così si iscrisse al Corso Allievi Ufficiali di Complemento nella specialità di “Artiglieria da montagna someggiata” presso la scuola di Lucca e dopo due anni ne uscì con il grado di Sottotenente.

Dopo il congedo seguirono alcuni mesi di lavoro nello staff delle costruzioni edilizie presso le acciaierie di Terni. L’impegno ternano però durò solo pochi mesi, fin quando, in vista dell’imminente tragedia della guerra, fu richiamato di nuovo alle armi il 4 settembre 1939, così come il fratello minore Raffaello.

Appena mobilitato, Giancarlo venne inviato al 4° Reggimento Artiglieria sul fronte delle Alpi francesi, nei pressi di Mentone, dove sparò le prime cannonate, con conseguente lacerazione di un timpano.

 

Il 16 giugno 1942 il Sottotenente Carattoli viene inviato sul fronte russo, col 121° Artiglieria da Montagna, al seguito della Divisione Ravenna ed in appoggio alla divisione Julia degli Alpini.

Papà non amava parlare di quel terribile periodo, i rari racconti si riferivano a piccoli episodi:

– I gatti che alcuni soldati vicentini, tra i quali il suo attendente, allevavano per il pranzo di Natale e mai mangiati causa la precipitosa ritirata, resa possibile dall’eroico sacrificio degli Alpini della Julia.

– Le anziane contadine ucraine che, saputo che quell’Ufficiale alto e gentile era italiano, gli mostravano le Icone religiose che tenevano gelosamente nascoste.

– La vodka non raffinata dall’orribile sapore.

– Il Colonnello Comandante che non voleva dormire nelle calde, ma ovviamente maleodoranti, casupole contadine di fango e sterco e ordinava così al sottotenente di complemento Carattoli, geometra, di costruirgli un locale con mattoni e cemento, nonostante la temperatura fosse di 30 gradi sottozero e quindi il cemento gelasse mentre veniva impastato.

– Gli autocarri assegnati dallo Stato Maggiore, dei Bianchi Miles progettati per l’Africa con il filtro aria antisabbia a bagno d’olio, olio che ovviamente a quelle temperature gelava bloccando il mezzo. Solo alcuni bravi meccanici, armati di pinze e fil di ferro, riuscivano a sostituire il filtro con materiale di recupero e rimettere in marcia il prezioso autocarro.

I ricordi, quelli tragici, dell’inutile ecatombe, delle migliaia di alpini morti in quella steppa congelata, mio padre li teneva stretti nel suo cuore; si potevano vedere solo le dita dei suoi piedi rimasti congelati durante la ritirata, percorsa in gran parte a piedi, da Minsk fino al Brennero che oltrepassò il 6 maggio 1943.

Il bollettino n. 630 del Comando Supremo Russo, emesso da Radio Mosca l’8 febbraio 1943 avrebbe recitato: “l’unico Corpo che può ritenersi imbattuto in terra di Russia è il Corpo d’Armata Alpino italiano“.

Dopo l’8 settembre, una volta rientrato a Perugia, papà entrò nel Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco come Vice Comandante Volontario del 61° Comando Provinciale di Perugia che, come organizzazione per la protezione civile, dal 1935 aveva sostituito il Corpo dei Pompieri Comunali.

La caserma era sempre nei vecchi locali comunali di Via del Melo, una traversa di Via Pinturicchio, gli stessi che avevano ospitato i Civici Pompieri di Nonno Manlio e le loro attrezzature.

Ai tempi di mio nonno gli Ufficiali del Corpo dei Pompieri avevano in dotazione, per la divisa da lavoro, un cinturone a cui era appeso un attrezzo simile ad una piccozza che recava su un lato la lama di una piccola ascia e da quello opposto la testa di un martello. L’uniforme da cerimonia prevedeva invece una spada dall’elsa artisticamente lavorata, che ne aumentava prestigio ed eleganza.

Purtroppo invece i Vigili del Fuoco nel 1940, con l’Italia ormai della bufera della guerra mondiale, avevano in dotazione anche un fucile mod.91.

 

Così Giancarlo prese parte agli interventi di soccorso durante i bombardamenti alleati con relativi spegnimenti degli incendi, ricerca di feriti e sopravvissuti, recupero dei corpi delle vittime. Non doveva certo essere piacevole letteralmente “staccare” dai pochi muri rimasti in piedi i corpi delle vittime schiacciati dagli spostamenti d’aria provocati dalle bombe.

Gli interventi più duri furono quelli per i numerosi bombardamenti subiti dalla zona di Ponte S. Giovanni, per la sua presunta importanza di nodo ferroviario e logistico e per i ponti sul Tevere, di Ponte Felcino, dell’aeroporto di S. Egidio.

Papà mi raccontava che durante questi interventi utilizzava una Fiat Topolino 500A (che la Prefettura aveva confiscato ad un noto medico perugino); il tettuccio di tela si gonfiava per gli spostamenti d’aria provocati dalle esplosioni e il Vigile del Fuoco che era con lui, mi sembra si chiamasse Pistilli, si lamentava della poca velocità della vetturetta!

 

Nella notte tra l’8 e il 9 luglio 1944 accadde una tragedia destinata, qualche tempo dopo, a cambiare radicalmente la vita di mio padre.

Alle 2:30 – 3:00 del mattino un velivolo solitario, dalla nazionalità rimasta sconosciuta (alcuni dicono inglese, altri tedesca, altri ancora addirittura italiana), soprannominato dai perugini “l’orfanello” proprio perché volava da solo, in una delle sue incursioni notturne, sganciò due bombe sul centro città. Una di queste cadde in via Cesare Caporali centrando il fabbricato al civico 4 e uccidendo dieci persone. Tra le vittime anche la sorella maggiore di mia madre, suo marito e la loro bimba di 4 anni.

 

Naturalmente mio padre, con la sua squadra dei Vigili del Fuoco, fu tra i primi a intervenire e dovette faticare non poco a tenere la mamma, che allora conosceva solo di vista, lontana dalla pietosa opera di recupero dei resti delle vittime e di ricomposizione dei corpi straziati.

Col passare del tempo nacque fra i due giovani, che fra l’altro abitavano a poche centinaia di metri l’uno dall’altra, una tenera amicizia. Dopo la fine della guerra, l’amicizia si trasformò in amore.

Il 24 luglio 1946 nella Chiesa di S. Damiano d’Assisi si sposarono con una cerimonia semplicissima, in sintonia con i tempi particolari dell’immediato dopoguerra. Di comune accordo si fecero la promessa che il primo figlio maschio che il Cielo avrebbe loro mandato, si sarebbe chiamato Francesco.

 

Giancarlo era innamoratissimo di Riccarda, la sua “Lella”. Quando lei se ne andò nel 1989, il suo cuore non resse al dolore e dopo pochi mesi la raggiunse.

Ma torniamo al 1944 e a quei difficili momenti.

Al passaggio del fronte, le truppe tedesche in ritirata requisivano tutti i mezzi che potevano essere loro utili. I Vigili del Fuoco di Perugia avevano ricevuto in dotazione da pochi mesi una nuova fiammante autopompa FIAT 666, il massimo all’epoca per potenza e tecnologia.

Nel timore che i tedeschi la requisissero portandosela al nord, il comandante Carattoli ebbe l’idea di nascondere l’autopompa nei pressi del civico cimitero, all’interno della chiesa medievale sconsacrata di S. Bevignate. Furono così approntate delle rampe di legno per superare le scale del portone d’ingresso e, non ancora contento, mio padre fece sollevare l’autopompa su dei ceppi e con i suoi fedeli vigili smontò le pesanti ruote e le nascose in cima al campanile! Così anche nella malaugurata ipotesi che i tedeschi avessero scoperto il “66”, come, quasi con affetto, veniva chiamato il mezzo, non potevano certo portarlo via perché privo delle ruote.

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6° Parte

UNA NUOVA CASERMA PER I VIGILI DEL FUOCO

 

Terminata la guerra iniziò l’opera di ricostruzione: mio padre si occupò della nuova sede dei Vigili di Perugia visto che quella vecchia di Via del Melo era ormai inadeguata.

Poiché in Corso Cavour si erano liberati i locali degli ex conventi, già trasformati a fine ‘800 in caserme per l’esercito, venne scelta quella dove tutt’ora è insediato il distaccamento di centro città.

Mio padre mi raccontava che in alternativa a tale sistemazione era stata ipotizzata l’attuale sede del Museo Archeologico in Piazza Giordano Bruno; il problema era che sarebbe stato estremamente difficoltoso l’ingresso e l’uscita dei nuovi grandi mezzi “americani” che il Ministero aveva destinato al Comando provinciale dei Vigili del Fuoco.

Infatti anche a Perugia erano arrivati alcuni veicoli precedentemente utilizzati dalle truppe alleate durante la campagna d’Italia. Riverniciati di rosso restarono in servizio per diversi anni e quando potevo entrare in quei garage che li ospitavano ero il bimbo più felice del mondo.

Nei miei ricordi di bambino con la passione dei motori e di qualsiasi tipo di veicolo, rimangono impresse le immagini di una tozza autobotte BEDFORD MWC WATER di origine inglese che, nell’età in cui tutti i bambini disegnano automobiline dalle linee fantascientifiche, mi sembrava davvero bruttissima, soprattutto confrontandola al fascino di due mastodontici veicoli americani, entrambi 46 a 6 ruote motrici: l’enorme anfibio GM DUKW 353, alto quasi 3 metri e lungo più di nove e la possente autogru GM DIAMOND T 969, con le ruote una spanna più alte della mia testa.

I miei genitori mi raccontavano che i Vigili del Fuoco avevano accolto in caserma un enorme cane bianco e nero, un trovatello di nome Tom che era diventato la mascotte del Corpo. Il cane, quando gli riusciva, saliva furtivamente sul mezzo in partenza e…. via a sirene spiegate verso l’incendio!

Tom era affezionatissimo a mio padre e cercava di seguirlo ovunque. Quando era prossima l’ora di pranzo, papà diceva: “vai Tom, vai”. Il cane si avviava dalla caserma verso casa nostra e cominciava ad abbaiare davanti al portone: per mia madre era il segnale convenzionale che era giunta l’ora di “buttare la pasta”, da lì a qualche minuto sarebbe arrivato papà.

Tom, entrato in casa, seguiva mia madre ovunque, quasi come un’ombra. Quando si recava in bagno lei gli diceva: “no Tom qui no” e il cane si accucciava aspettando paziente fuori dalla porta.

Giocava volentieri con i bambini, dolcissimo, ma era il terrore di tutti i gatti del vicinato; tanti ne vedeva e tanti ne inseguiva spesso uccidendoli: in Corso Cavour i gatti si tenevano ben lontani dalla caserma dei Vigili del Fuoco!

Poiché mio padre nel Corpo dei Vigili del Fuoco era in una posizione simile a quella di un “precario” dei nostri tempi, nel 1947 partecipò, vincendolo, al concorso per geometri indetto dal Ministero delle Finanze, necessari per la formazione e l’attivazione nel Nuovo Catasto Terreni.

Iniziò quindi questa nuova carriera senza tuttavia abbandonare il mestiere di pompiere. Aderì infatti al Corpo dei Vigili del Fuoco Volontari Discontinui con l’incarico di vice-comandante ausiliario. Negli anni ’60 raggiunse il “favoloso” stipendio di 18.000 lire annue. Il suo compito era quello di sostituire il comandante provinciale nei periodi di assenza di quest’ultimo oppure di essere richiamato in caso di particolari emergenze.

Fra queste, nel 1950 e nei 3 – 4 anni seguenti vi furono le devastanti piene del Tevere, con gravi inondazioni nel circondario di Perugia: Ponte Felcino, Ponte Valleceppi, Pontenuovo di Torgiano vennero più volte allagate e numerosi furono gli interventi dei pompieri per salvare persone e animali.

I mezzi a disposizione erano delle fragili barche di compensato e legno di balsa, anche queste residuati bellici americani. La furia del Tevere e soprattutto i tronchi e le carcasse di grossi animali trascinati dalla corrente provocavano spesso danni irreparabili alle fragili imbarcazioni, mettendo a repentaglio la vita dei soccorritori e delle persone soccorse.

Fu così che due vigili, provetti fabbri e carpentieri, aiutati anche dai disegni di mio padre e del Maresciallo Piccini, costruirono nell’officina della caserma una sorta di enorme “moscone”, o meglio “pattino” metallico, forse ispirandosi a quelli che i bagnini utilizzavano sulla riviera adriatica. L’imbarcazione aveva due enormi galleggianti rivestiti da spesse lamiere d’acciaio rivettate a caldo. Fra i due scafi era fissato un largo piano di carico che ne garantiva la stabilità. Anche quando il Tevere era arrabbiato, le sue acque e soprattutto ciò che riusciva a trascinare a valle, non potevano danneggiare questa robustissima e pesante “corazzata”, ma che fatica spostarlo sulla terraferma!

Da quello che ricordo, la comunità dei pompieri era tutta molto unita, senza distinzioni tra vigili “permanenti” e “volontari” e ogni tanto venivano date delle piccole feste.

Tra queste mi ricordo la “Befana del Vigile”, che aveva come protagonista un pompiere piccolo di statura e sufficientemente “brutto”, dotato di un grosso naso bitorzoluto. Costui, mascherato da Befana, il 6 gennaio di ogni anno scendeva, mediante una corda, dall’alto del castello di manovra sul piazzale sottostante e consegnava piccoli regali a noi bambini, spaventando un po’ i più piccini con il suo aspetto non proprio rassicurante.

Della comunità dei Vigili del Fuoco facevano parte anche coloro che erano stati “Pompieri Comunali” prima della nascita del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco e che riconoscevano come loro Santo Patrono Sant’Antonio.

Al pranzo conviviale in occasione della ricorrenza del Santo, partecipavano comunque anche i nuovi Vigili e vi era sempre invitato anche mio padre. L’organizzazione era curata dal Cav. Sandro Tomassini ex Pompiere ed ex Vigile Volontario. Il suo originale e bellissimo negozio “L’antica Drogheria Bavicchi” in piazza Matteotti era un punto di aggregazione per gli ex colleghi. Dal 1980 ho goduto della stima e dell’amicizia del “Sor Sandro” in quanto sono andato ad abitare nell’appartamento sopra il suo in via XIV Settembre e quindi gli incontri erano quotidiani.

La festa ufficiale del Corpo Nazionale era invece quella di Santa Barbara, protettrice dei Vigili del Fuoco e degli Artiglieri.

Per l’occasione io ero autorizzato ad assentarmi da scuola per assistere all’esercitazione dimostrativa che accendeva l’entusiasmo e la fantasia di noi bambini.

Finestre in fiamme espugnate con il montaggio velocissimo della cosiddetta scala all’italiana, lanci sul telo di salvataggio e soprattutto le imprese di un vigile di nome Diarena che faceva la verticale sull’ultimo gradino dell’autoscala allungata al massimo, facendo cadere, al clou dell’esercizio, il suo cappello da un’altezza di oltre venti metri, provocando così un urlo di spavento da parte degli spettatori.

Seguiva poi la sfilata dei mezzi per le vie della città. Al pranzo in caserma, che chiudeva le cerimonie, partecipò, fin quando gli fu possibile, anche nonno Manlio, storico Comandante dei Civici Pompieri, come riportava nella cronaca locale un articolo del Messaggero, conservato con cura da mio padre.

Un giorno di una torrida estate, non ricordo se del 1955 o 1956, mentre mi trovavo in caserma con mio padre che sostituiva il Comandante in ferie, arrivò una richiesta d’intervento per spengere l’incendio di due pagliai, semplice operazione di routine in quella stagione.

A mio padre venne allora un’idea un po’ bizzarra e, facendogli un cenno d’intesa, disse a Garghella, autista della vettura comando, “dovremo andare a vedere” e, rivolgendosi a me “dai, vieni anche tu”.

Solo qualche anno più tardi capii che i due l’avevano fatto apposta per farmi felice e ci riuscirono bene!!! Non potrò mai dimenticare quella Fiat 1100-E grigia (vettura comando di rappresentanza) che a sirene spiegate correva a tutta velocità facendo fischiare le gomme a ogni curva (ovviamente complice l’autista!) suscitando una gioia e un’emozione indescrivibile per un bambino di 8/9 anni.

Le complicazioni iniziarono al nostro rientro a casa.

Infatti la mamma, non vedendoci tornare per l’ora di cena aveva telefonato in caserma e il centralinista le aveva riferito che papà era partito per un incendio portandosi dietro anche me. Preoccupatissima, quando tornammo fece “una robusta ramanzina” a mio padre che cercava invano di tranquillizzarla. Si volevano così bene che in tutta la loro vita coniugale fu quello l’unica accesa discussione che ebbero.

Papà andò in pensione dal catasto verso la metà degli anni ’70 e così ebbe tempo per dedicarsi ai suoi hobby: le piccole riparazioni domestiche, la lettura di libri e quotidiani e infine i suoi nipoti nel frattempo arrivati.

Fin quando gli fu possibile non mancò di andare a trovare i suoi pompieri, a partecipare alle celebrazioni ufficiali e agli incontri conviviali. Fu particolarmente attivo nel 1971 per le celebrazioni del centenario della costituzione dei Civici Pompieri di Perugia.

Ancora una volta lo spirito del pompiere prevaleva su quello del pensionato e partecipava con entusiasmo alle attività ricreative della caserma, comprese le cerimonie e i pranzi in occasione delle celebrazioni per la Festa di Santa Barbara.

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7° Parte

DOPO NONNO E PAPA’ ……LE ALTRE GENERAZIONI !

La terza generazione.…

Purtroppo, per disguidi burocratici tra il Ministero degli Interni ed il Ministero della Difesa, la mia domanda di effettuare il servizio di leva (allora obbligatorio) nei Vigili del Fuoco andò smarrita e così, staccata al distretto militare la cartolina precetto, venni destinato a ottemperare gli obblighi di leva presso il I° Reggimento Bersaglieri di Civitavecchia.

In conseguenza di ciò il desiderio mio e soprattutto di mio padre di continuare la tradizione pompieristica di famiglia non si poté più realizzare, malgrado i tentativi estremi di papà che arrivò persino a recarsi personalmente alle Capannelle, dal comandante della Scuola Allievi ing. Antonio Litterio, il quale aveva comandato il Corpo Provinciale dei Vigili di Perugia, con papà come vicecomandante. Ma non ci fu più nulla da fare.

A proposito dell’ing. Litterio, ricordo con piacere i pomeriggi passati (qualche volta ero invitato anche a pranzo) nella sua abitazione all’ultimo piano della caserma di corso Cavour a giocare con i modellini delle macchinine dei pompieri insieme con il figlio “Mino”, di qualche anno più piccolo di me, e anche lui futuro comandante della Scuola delle Capannelle.

Erano quelli gli anni felici di un’infanzia, diventata poi adolescenza, dove la domenica, dopo la Messa, papà, io e mia sorella andavamo tutti nella caserma di Corso Cavour. Papà chiacchierava con i suoi amici, io mi infilavo nei garage e facevo finta di guidare ora l’ambulanza 1100/b, ora la rossa 1100 vettura comando, ora la Campagnola che mi affascinava particolarmente con tutte quelle leve del cambio, le ridotte, il blocco del differenziale. L’ordine assoluto era quello di NON TOCCARE PER NESSUNA RAGIONE la chiave di accensione!

Mia sorella, più piccola di me di cinque anni, invece si divertiva ad arrampicarsi sul “palo di servizio” e a saltare, sotto l’occhio attento dei Vigili che consideravano questa bambina di 4/5 anni quasi una mascotte, sui teli e materassi di salvataggio.

Io e mia sorella ricordiamo anche che ci fu un periodo in cui per Santa Barbara l’auto del Comando veniva a prendere a casa noi bambini e la mamma per accompagnarci in Caserma per la cerimonia con le Autorità; papà era già sul posto dalla mattina presto. Fu in quel cortile che, qualche anno dopo, feci anche i primi passi nella guida della Lambretta di papà, seguendo i preziosi consigli degli autisti di autopompe.

Da allora anni ne sono passati, ma la passione per i modellini storici e moderni dei mezzi dei Vigli del Fuoco mi è rimasta: ne ho collezionati quasi 200 da tutto il mondo che conservo gelosamente nell’attesa di poterci giocare con il mio nipotino lontano.

 

L’11 settembre 1989 morì mia madre.

Per papà fu un colpo terribile dal quale non si riprese più. Qualche mese dopo, il 11 agosto 1991 anche il Comandante Carattoli se ne andò. Pochi istanti prima di spegnersi mia sorella Maria Luce (secondo nome Barbara!) ed io notammo i suoi occhi verdi illuminarsi di una luce speciale: sono convinto che abbia visto la sua adorata “Lella” che lo attendeva, probabilmente insieme a nonno Manlio nell’alta uniforme da Comandante dei Civici Pompieri di Perugia.

Al funerale di papà mi misi a piangere come un bambino quando vidi, all’uscita della bara sorretta da quattro Vigili in divisa, la presenza sull’attenti di un picchetto dei Vigili del Fuoco, che rendeva gli onori al Comandante Carattoli e la vettura rossa che scortò papà fino al cimitero.

…altri personaggi…

l legame della famiglia Carattoli con il Corpo dei Vigili del fuoco si era comunque arricchito anche per via del mio matrimonio: lo zio di mia moglie (fratello di sua madre) era il Maresciallo Emilio Arcangeli, entrato come Pompiere Municipale e andato in pensione come Sottufficiale del Vigili del Fuoco. Era felice che sua nipote Anna, alla quale era molto legato, avesse sposato il figlio del Comandante Carattoli.

Oltre allo “zio Emilio” ci sono anche tanti altri ex colleghi di papà che ricordo con simpatia.

Alla mia età, a oltre 60 anni di distanza, nomi e figure sono piuttosto sfumati. Di alcuni rammento il volto, di altri solo il nome, abbinandolo magari alla professione esercitata.

I fratelli Alfieri, Passetti il falegname, i fratelli Piccini, Ghirga, Vagnetti il verniciatore, Borghesi, Baldoni, Garghella e Porrozzi autisti comando, Castellani aggiustatore meccanico dalle grandi mani callose capaci però di capolavori di micromeccanica che avrebbero fatto impallidire un orologiaio e tanti, tanti altri.

Fra questi pompieri rimasti amici di papà c’è una figura che ha sempre suscitato la mia curiosità: Rudio Mecarelli. Pompiere, anarchico, bersagliere, ciclista, scalpellino, massone, credente. Quando al cimitero di Corciano fu scoperta una lapide in sua memoria, mio padre fu invitato alla cerimonia e ne serbò memoria, come si può vedere dalla lettera d’invito che aveva conservato integrandola con i suoi commenti personali un po’ “pepati” nei confronti di due vigili di leva!

Riguardo a quella cerimonia ho ritrovato un ritaglio quasi illeggibile di un articolo apparso sulla Nazione del 17 ottobre 1977 con la commemorazione di Rudio Mencarelli da parte dell’on. Vittor Ugo Bistoni.

Papà indicava Rudio come esempio per la sua dirittura morale e la logicità delle sue contraddizioni quasi paradossali. Mi sembra, ma potrei facilmente sbagliarmi, che avesse il laboratorio da marmista scalpellino proprio in Corso Cavour, quasi davanti alla caserma dei Vigili del Fuoco, nei locali dell’ex Ospedale Medioevale dei Pellegrini dove ora dovrebbe esserci il laboratorio/museo di un noto falegname restauratore.

 

Quando papà andava a trovare gli amici in caserma spesso si fermava a fare due chiacchiere al laboratorio di Rudio.

 

E infine le ultime generazioni…

Con la scomparsa di mio padre la tradizione pompieristica della famiglia Carattoli non è però finita.

Andrea Carattoli, il mio primogenito, nei 2 anni iniziali del suo primo, lungo soggiorno di studio e poi di lavoro in Giappone, iniziato nel 2006 subito dopo la laurea in marketing automobilistico, ha prestato servizio volontario nei pompieri giapponesi nel paesino di Teraguchi, comune di Katsuragi, prefettura di Nara.

Due volte al mese, la domenica mattina, doveva recarsi insieme con gli altri pompieri volontari nella piccola caserma, indossare la divisa e fare due ore di esercitazione operativa con l’attrezzatura antincendio di primo intervento installata a bordo di un minivan Daihatsu.

Questa organizzazione, costituita da lavoratori e pensionati, è caratteristica dei piccoli paesi giapponesi dalle case quasi tutte in legno (le norme antisismiche sono in Giappone molto rigide), e costituisce, in caso di incendio, una forza di primo e veloce intervento nell’attesa che arrivino dalle caserme delle città più grandi i veri pompieri professionisti con i loro più potenti mezzi professionali.

Mi spiace che nonno Giancarlo non abbia potuto vedere il primo nipote in divisa da pompiere, anche se era quella giapponese di colore bianco! Comunque quei “commilitoni” giapponesi di Andrea furono molto felici di ammirare le foto in divisa di nonno Giancarlo e soprattutto del bisnonno Manlio che io gli avevo mandato. Quelle immagini accrebbero il rispetto nei confronti di questo giovane straniero da parte di una comunità che, come noto, è assai sensibile in fatto di tradizioni familiari.

Oggi Andrea lavora alla Infiniti-Nissan di Yokohama, non è più “pompiere volontario” ma la passione è rimasta e spesso, quando porta a passeggio il suo cagnolino si ferma a chiacchierare con i “Firefighters” della locale base militare americana all’altro lato del grande parco vicino a casa sua.

Andrea Carattoli prima di Yokohama aveva lavorato alla FIAT Japan di Tokyo poi, dopo Fukushima, trasferito alla sede centrale di Torino e quindi alla Maserati di Modena. Quale augurio per il suo rientro in Italia ho regalato ad Andrea, quando si trasferì a Torino un Diploma di nonno Manlio di partecipazione al concorso Pompieristico della città piemontese e lo stesso feci quando Andrea si trasferì a Modena con quello svolto nella città emiliana.

Andrea, ricordando la mia “pompierite” e il mio interesse per tutto ciò che funziona con un motore, mi ha regalato una rivista giapponese che illustra i mezzi in dotazione ai vigili giapponesi, una specie di catalogo di attrezzature e veicoli specialistici disponibili sul mercato giapponese.

Ne riproduco qualche pagina, incuriosito e inorgoglito soprattutto dalla presenza di un’autoscala IVECO MAGIRUS in mezzo a tanti mezzi Toyota, Isuzu, Morita. L’articolo riporta letteralmente e per fortuna in inglese: “il meccanismo della scala si è evoluto”.

Mi sono tornate in mente le parole di papà che diceva: “le Magirus sono le migliori autoscale del mondo!

La mia speranza è che la storia familiare dei Carattoli Pompieri non si fermi qui, ma continui ancora nel tempo: infatti sono felicemente il nonno (purtroppo lontano qualche migliaio di chilometri) di un bel nipotino di 5 anni. Dalla passione che attualmente mio nipote sembra dimostrare anche nei suoi giochi preferiti, c’è la speranza che la tradizione o anche la sola passione pompieristica di famiglia prosegua anche con questa nuova generazione: Lorenzo Carattoli il figlio del mio secondogenito Filippo.

Anche Filippo, come suo fratello Andrea e purtroppo tanti altri giovani italiani della loro generazione, da anni lavora all’estero, prima a Lima in Perù ed ora sul lato canadese delle cascate del Niagara.

Comunque anche Filippo, quand’era studente, un po’ per passione e un po’ per guadagnare qualche euro, aveva prestato la sua opera di commissario capoposto all’Autodromo di Magione e in diverse manifestazioni sportive motoristiche, da Monza, a Imola, ad Adria, alle più rinomate cronoscalate, sempre pronto con estintori, sabbia e filler ad intervenire in caso di d’incendio durante le gare, cosa realmente accaduta più di una volta. Aveva anche partecipato ad appositi corsi di soccorso antincendio organizzati dalla CSAI.

Così dopo Manlio, Giancarlo, Francesco (ospite!) ed Andrea, con Lorenzo saremmo sulla buona strada per raggiungere la quarta generazione della famiglia Carattoli a far parte dell’altra grande “famiglia” dei Pompieri.

In questi anni dove tradizioni e valori sembrano avere sempre meno importanza, mi fa piacere immaginare il prosieguo di una storia che attraversa ben tre secoli!

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